
Un’ora dopo, eravamo tutti alla stazione di polizia: io, Chiara, Luca, Marco e le altre ragazze.
Mancava solo Martina.
Chiara era un disastro. Io cercavo di non vomitare. Prima di uscire di casa, avevo fatto un sorso di grappa per “calmarmi”. Una follia, lo so, ma era l’unica cosa che avevo in casa, e mi sembrava meglio che affrontare tutto completamente lucida.
Le altre ragazze piangevano. Luca e Gianni erano impassibili, con i volti rigidi. Marco era in fondo al corridoio, insieme a un agente. Troppo lontano per riuscire a vedere la sua espressione.
Non ci era permesso parlare tra di noi, e presto fummo separati. Chiara mi guardò con aria supplichevole mentre una poliziotta la portava in una stanza privata.
“Signora?”
Mi voltai.
“Può seguirmi?”
La stanza era esattamente come quelle che si vedono in televisione: una grande finestra, un tavolo rettangolare, due sedie di legno vuote. Guardai l’agente. “È un’indagine?”
Era un uomo sui cinquant’anni, con i capelli grigi e il viso arrossato. Annuì. “Solo per precauzione,” rispose. “Io sono il maresciallo Montesi.”
“Come è morta?” chiesi.
Il maresciallo Montesi strinse gli occhi. “Nessuno gliel’ha detto?”
Scossi la testa. “Marco non ha detto niente a Chiara.”
“Signora Rinaldi, ha bevuto?”
Sentii il viso accendersi di rossore. “È stata… è stata una lunga notte, e poi la notizia…”
Il suo sguardo si fece severo, mi ricordava quello di mio padre. “Può raccontarmi qualcosa della fine della serata? Dei saluti?”
“Non vuole sapere del delitto?”
Montesi mi fissò, e arrossii di nuovo. “Signora Rinaldi, nessuno ha parlato di un delitto. E lei mi ha appena detto che non sa come sia morta la signorina Martina Valli”
“Chi?”
Mi pentii subito di averlo interrotto. Il maresciallo non sembrava il tipo che apprezzasse queste cose.
“Martina Valli è la ragazza che è deceduta dopo aver partecipato alla festa a cui era presente anche lei, signora Rinaldi.”
La bocca mi si asciugò. “Non sapevo, lei si è presentata solo come Martina. Non l’avevo mai incontrata prima di ieri sera.” Il maresciallo continuava a fissarmi.
Tutto stava andando storto.
Quando sono nervosa, bevo. E se non posso bere, parlo a raffica.
“È stato un incidente stradale? Ha bevuto un po’, ma non tanto quanto Marco.”
Chiusi gli occhi, ricordandomi di loro due sulla porta di casa di Chiara. Marco era barcollante e impacciato, non che io potessi parlare, ma Martina sembrava a posto. Mi aveva sorriso e ringraziato. Perché mi aveva ringraziato? “Le ho dato una bottiglietta d’acqua, per il viaggio,” aggiunsi, ricordandomi.
Era stata la cosa sbagliata da dire. Il maresciallo Montesi cercò di mantenere un’espressione neutrale, ma i baffi si contrassero e sentii il suo piede iniziare a battere sotto il tavolo.
“Signora Rinaldi,” disse piano. “Ha qualcuno da chiamare?”
Non c’era nessuno da chiamare. Mia madre ci aveva lasciati quando ero piccola.
Un anno fa avrei potuto chiamare mio padre, ma da qualche mese si trovava in una casa di riposo, dopo che gli era stata diagnosticata una forma precoce di Alzheimer. Come mio nonno. Papà aveva appena superato i sessant’anni e metà delle volte non sapeva nemmeno chi fossi. Andare a trovarlo mi spezzava il cuore, così ci andavo raramente.
L’unica persona che volevo chiamare era Chiara, ma il maresciallo Montesi mi spiegò che non era possibile, perché era anche lei sotto interrogatorio.
Il maresciallo indicò il telefono sulla scrivania. Pensai a lungo, poi alzai la cornetta. C’era solo una persona che mi veniva in mente, e non volevo chiamarlo.
Composi il numero di Stefano, mio cugino maggiore.
“Anna? Stai bene?”
Mi vennero le lacrime agli occhi. L’ultima volta che avevo parlato con Stefano avevamo litigato. Ma ora la sua voce era premurosa.
“Non lo so. Credo di essere nei guai.”
“Chiara mi ha già chiamato. Tranquilla, vengo lì.”
L’unica persona che mi avesse mai accusato di avere un problema con l’alcol era proprio Stefano, e io avevo sempre negato.
Certo, non ero una figlia modello, né una cugina ideale, ma non ero un’alcolista. Sì, bevevo quando ero triste, e sì, ogni tanto esageravo, ma non ero un disastro completo. Avevo un lavoro, pagavo le bollette, non avevo mai preso una multa per guida in stato d’ebbrezza, né mi ero mai ritrovata svenuta in un fosso.
Eppure, seduta in quella stanza, aspettando che Stefano venisse a tirarmi fuori dai guai, non potevo negare che l’alcol avesse contribuito alla situazione in cui mi trovavo. Ero stata uno straccio tutto il giorno, troppo confusa per mettere insieme i pezzi.
Un tempo ero la ragazza con la testa sulle spalle, quella che risolveva i problemi, che trovava divertenti i rompicapo di logica. Fin da piccola, mi dilettavo con i “Trova le differenze” delle riviste per bambini, e amavo tutto ciò che richiedeva osservazione e ragionamento.
Mi sforzai di concentrarmi, nonostante il mal di testa martellante.
C’era qualcosa che mi sfuggiva. Una memoria vaga. Un’immagine.
Se riesco a capirlo, giuro che non berrò mai più.
Non era solo questione della mia libertà – certo, ero terrorizzata. Non avevo fatto del male a nessuno, ma volevo disperatamente andare a casa.
Ma più di ogni altra cosa, volevo recuperare il controllo sulla mia mente. Troppe volte avevo perso pensieri, ricordi, dettagli importanti, incapace di richiamarli alla memoria.
E poi, d’un tratto, tutto si allineò. Sollevai la testa, fissando il maresciallo Montesi e l’avvocata Amber, che avevano interrotto il loro litigio per guardarmi.
“Ha qualcosa da dire, signora Rinaldi?” chiese Amber, con tono tranquillo.
Era il riflesso che avevo visto nella foto che avevo mandato a Chiara quella mattina – un dettaglio che mi era sfuggito nella nebbia della sbornia e del mal di testa. Non era solo un gioco di luci tra il microonde e il forno, come avevo pensato all’inizio.
Quello che ricordavo, adesso, era chiarissimo: nella foto, si vedeva Luca. Aveva in mano una bottiglietta d’acqua aperta, e nell’altra mano stringeva qualcosa. Non riuscivo a distinguere cosa fosse.
Non era una prova. Non sapevo nemmeno se mi avrebbero creduto. Eppure, mi sentivo stranamente soddisfatta. Come quando trovi le chiavi di casa che pensavi di aver perso per sempre.
“C’è una foto sul mio telefono,” dissi, quasi sussurrando. “Il codice è 0307, la data di nascita di mio padre. Dovete vederla.”
Montesi alzò un sopracciglio, scettico. Ma Amber intervenne, con la sicurezza di chi non si lascia intimidire. “Bene, maresciallo. La vediamo subito.”