Emma, seduta su un colle nei dintorni di Fiesole, con il profilo di Firenze sullo sfondo, regolava l’apertura della sua macchina fotografica per ridurre il riverbero intenso. Attraverso il mirino, il paesaggio appariva in bianco e nero: ombre nette e contrasti forti. Di fronte a lei, una famiglia sorrideva composta per lo scatto: un uomo dai capelli scuri, con un sorriso luminoso, abbracciava due bambini che condividevano i suoi tratti. Sullo sfondo, la città rinascimentale si stendeva come un dipinto, con il Duomo che dominava l’orizzonte.
“Dite ‘cheese’,” disse Emma, con voce meccanica.
Scattò la foto, osservando poi il risultato sullo schermo della fotocamera. Non era perfetto. Non lo era mai. Propose un altro scatto, e la famiglia, paziente, si sistemò di nuovo. Ma il problema era altrove, nel bambino più piccolo, il cui sorriso mancava di autenticità.
Con mani abili, Emma afferrò la piccola figura che teneva in una scatola accanto a sé: un modellino di argilla che riproduceva il suo “figlio”. Usò uno strumento sottile per scolpire un’espressione più veritiera. “Ecco,” mormorò, posizionando di nuovo il modellino nella scena. La vita non era sempre felice, e lei voleva che la foto lo rappresentasse.
Scattò ancora e ancora, finché il sole calò dietro le colline fiorentine e la macchina fotografica si spense per la batteria scarica. Emma raccolse i suoi modellini, li avvolse con cura e si incamminò verso la sua auto. La notte la trovò in un motel anonimo, con una stanza semplice e una stanchezza che la fece sprofondare sul letto senza nemmeno togliersi gli stivali.
I sogni la perseguitarono. Rivide il fuoco che aveva distrutto la sua casa e la sua famiglia anni prima. Il calore soffocante, le urla dei suoi figli. Si svegliò di soprassalto, incapace di respirare, e uscì all’aperto per calmarsi. Il parcheggio era illuminato dalla luce fioca dei lampioni. Guardando verso la sua auto, vide un gatto magro arrampicarsi su un cumulo di spazzatura, conquistando con fierezza un pezzo di coda di pesce. Emma sentì uno specchio riflettersi davanti a lei: la determinazione del gatto, anche nella miseria, risvegliò qualcosa dentro di lei.
Impugnò la sua Polaroid e scattò una foto. Il click le fece capire una cosa importante: non aveva mai voluto morire, ma non aveva nemmeno saputo vivere. Tornò nella stanza, prese ogni ricordo costruito – i modellini, gli album di foto – e li portò al cumulo di spazzatura. Li lasciò lì, come un’offerta agli spiriti del passato.
Salì in macchina con un solo album vuoto. Nel primo scomparto inserì la foto del gatto, il simbolo del suo nuovo inizio. Poi si liberò del revolver che aveva comprato in un momento di debolezza, gettandolo in un tombino.
“Basta fantasmi,” mormorò.
Con il motore acceso, Emma si allontanò dal motel. Attraverso lo specchietto retrovisore, le sembrò di vedere tre figure luminose, sorridenti e serene, che le salutavano. Soffiò loro un bacio e riprese la strada. Il sole stava sorgendo sulle colline toscane.
Era tempo di vivere di nuovo.