La sala del tribunale era immersa in un silenzio carico di tensione, rotto solo dal fruscio delle pagine e dai sussurri sommessi.
Anna alzò lo sguardo dalle mani strette, cercando di orientarsi in quella realtà che le sfuggiva. I volti impassibili della giuria, gli uomini in divisa che la osservavano con occhi attenti, il giudice che batteva con forza il martelletto. Il suono la fece sobbalzare, trascinandola con forza in un presente che non riconosceva.

«Vuole rispondere alla mia domanda, signorina Mancini?»

Anna la fissò, confusa. «Mi scusi, cosa?»
Le voci dei giurati iniziarono a mormorare tra loro, mentre alle sue spalle il pubblico sussurrava. Il giudice sospirò, irritato, e cercò qualcosa tra le carte davanti a sé. Poi alzò nuovamente lo sguardo, severo. «Cosa esattamente non le è chiaro, signorina Mancini?»
«Non lo so,» mormorò Anna, con una risata nervosa che sembrava uscita da un’altra persona. «Intendo… cosa sta succedendo?» Fece per gesticolare, ma subito due agenti vicini a lei portarono le mani alle fondine dei manganelli.
Il suo avvocato, un uomo magro, con gli occhiali e un completo elegante, le si avvicinò. «Che diavolo sta facendo?» sibilò. «Non posso improvvisare un’istanza per infermità mentale se non mi dice niente!»
Anna lo scacciò con un gesto brusco. «Infermità mentale? Ma di cosa sta parlando? Perché sono qui?»
Una donna elegante si alzò, il suo completo blu scuro impeccabile, la voce ferma e autoritaria. «Signor giudice, credo che sarebbe utile per la signorina Mancini e per la giuria ripercorrere i fatti e le prove.»
Il giudice batté il martelletto. «Concedo una breve pausa per riflettere sulla richiesta.»
Nel bagno deserto, Anna si chiuse in uno dei cubicoli, il corpo scosso da singhiozzi e nausea. Vomitò, tremando, e poi si trascinò verso il lavandino. L’acqua fredda le scorreva sulle mani mentre fissava il volto pallido nello specchio.

«Finalmente mi guardi.»

Una voce profonda e familiare la fece trasalire. Si voltò di scatto, ma era sola.
«Sono qui. Sempre qui.»
Anna tornò a fissare il vetro, e per un attimo vide qualcosa di impossibile. Non era il suo riflesso: era lei, ma diversa. Gli occhi più scuri, l’espressione fredda e intensa.
«Chi sei?» mormorò, la voce spezzata.
«Sono te.» L’altra sé sorrise, ma non c’era traccia di calore in quel gesto.
«No, non è possibile. Non sei reale. Questo è un incubo, un errore, una follia.»
L’altra sé scosse la testa. «Questo non è un incubo, Anna. È successo davvero. Io sono ciò che hai dovuto essere per sopravvivere.»
Il ricordo si infranse nella mente di Anna come un’onda violenta: il vicolo, i passi rapidi alle sue spalle, il panico che le serrava il petto. E poi il sangue, il suono di ossa che si spezzavano, e quei corpi immobili sotto la luce fioca di un lampione.
«Non era giusto. Avrebbero fatto di peggio.»
«No!» Anna gridò, allontanandosi dal lavandino. «Io non… io non l’ho fatto!»
«L’ho fatto io, allora,» rispose l’altra sé, la voce ferma. «Perché tu non eri capace. Ma ora devi accettare chi siamo.»
Un colpo alla porta del bagno interruppe quel dialogo irreale.
«Signorina Mancini, è ora di tornare in aula.»
Di nuovo in tribunale, il giudice Moretti guardava Anna con un’espressione grave.
«Signorina Mancini, capisco le circostanze, ma la violenza che ha usato non può essere giustificata come semplice legittima difesa. La corte la dichiara colpevole di omicidio volontario.»
Anna sentì il mondo crollare. Alzò gli occhi verso il vetro sopra il giudice, e vide l’altra sé che la fissava, il volto impassibile.
Mentre veniva trascinata via, Anna sussurrò: «È colpa tua.»
L’altra sé non rispose, ma le camminava accanto, invisibile agli altri. Era sempre stata lì, e sempre ci sarebbe stata.

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